Dopo anni, fra dieci giorni rivedrò il mio aguzzino. Davanti
a un Giudice per fortuna.
Molte volte in tutto questo tempo ho rivissuto i momenti
peggiori, ma mai come in questo periodo li avverto vivi, come se ancora io
fossi lì a subire.
Poche persone conoscono nel dettaglio quello che mi è accaduto.
Mia moglie certamente, come pure il mio avvocato, che è molto documentato su
ogni singolo evento accadutomi.
Eppure nessuno SA, neanche loro sanno, veramente quello che io
ho davvero provato in quelle lunghe giornate, in quell’ufficio, in quel
contesto così surreale.
Ognuno è portato a conservare le proprie esperienze e a
vivere come proprie quelle degli altri. Così ogni cosa che accade a sé o agli
altri è vissuta e interpretata con la propria sensibilità e, pur nella capacità
empatica propria di chiunque, per i riflessi che si avvertono nella propria
sfera di emozioni e percezioni.
Mia moglie sa che ho sofferto, lo sa anche il mio avvocato.
Ma non sanno fino in fondo cosa ho provato, non potranno saperlo mai.
Quando di notte mi svegliavo nel panico e sfioravo la mano
di mia moglie, che intanto dormiva, per cercare una salvezza in quel contatto…
no, non può sapere quanto fosse angosciante, e a al tempo stesso un piccolo sollievo, in
attesa che la tortura cominciasse.
Non perdo tempo a spiegarlo, quasi voglio conservare questa
sensazione così com’è. La solitudine assoluta in una situazione senza via d’uscita.
E se nessuno può capire fino in fondo, nessuno può aiutare
davvero.
In teoria potrebbe chi SA, chi ha subito quello che ho
subito io.
Ma se c’è quel qualcuno, è svuotato di energie quanto me.
Quanto me che posso capire gli altri, ma a mia volta posso aiutare poco.
Nel gruppo che frequento non si parla più, io stesso non lo
faccio da tempo. Ognuno è ricurvo su se stesso, sulle proprie angosce
irrisolte.
Il mobbing è morte.